associazione italiana familiari e vittime della strada - onlus

Diario :  29 dicembre - 30 gennaio

 

29 dicembre 2001 

 

Stamattina è arrivata una lettera di Silvia; pensavo fosse un biglietto di auguri, anche se ci eravamo viste all’antivigilia di Natale e ci eravamo già scambiate auguri e dolci. Invece dentro al biglietto c’era una vera lettera, indirizzata a me e a Giuliano.

Leggendola ci siamo commossi ed abbiamo pianto. Silvia ci spiega che persona importante sia stata per lei Federica e come si appoggiasse a lei per i momenti difficili. Ha parlato del suo carattere che sapeva infondere allegria, anche a chi credeva di avere problemi insormontabili, e ha concluso dicendo che la nostra famiglia era sempre nei pensieri e nelle parole di Federica, che ci amava moltissimo e considerava la famiglia la cosa più importante, proprio come avevamo cercato di insegnarle.

La frase finale: “ ... credo che il regalo più bello per lei in questo Natale sia vedervi sorridenti e scherzosi come sono sempre stati i genitori che lei così tanto amava.” mi rassicura sul nostro comportamento, che certe volte può sembrare strano a chi non ci conosce bene. Ho capito che certe persone non comprendono il nostro bisogno di mantenere una vita il più possibile “normale” perché chiacchierare e ridere non rientra nei comportamenti che si ritengono consoni a questi avvenimenti. Per molti una morte è ancora una cosa da vivere con certi comportamenti schematici e, quando trovano un modo di affrontarla che non rientra in queste abitudini consolidate, fuggono perché non lo comprendono.

Mantenere abitudini e comportamenti simili a “prima” non significa assolutamente che non soffriamo o che abbiamo dimenticato; è solo un modo diverso di affrontare il dolore. Certe volte bisogna anche pensare agli altri e cercare di dar loro qualche motivo o momento di serenità, anche se parziale. Dobbiamo anche permettere a noi stessi di vivere;  sarebbe naturale farsi condizionare da sensi di colpa ed evitare qualsiasi occasione per rilassarsi e impedirsi di ridere

Questa lettera mi ha fatto anche capire che Federica ci ha lasciato una bella eredità: l’affetto di tante persone che l’hanno amata e che adesso ci sono vicine, perché attraverso le sue parole hanno imparato a volerci bene.

Credo di intuire, che tutto ciò voglia dire che si raccoglie ciò che si semina e l’amore non va mai perso. Noi l’abbiamo dato a nostra figlia, lei l’ha passato ad altre persone, che adesso ce lo rendono, perché l’hanno amata e amano il suo ricordo.

Questo è molto rassicurante e mi fa capire che non abbiamo sbagliato nel nostro modo di agire. Capisco anche che l’amore non è mai sprecato.

 


1 gennaio 2002

 

Aspettavo una telefonata di Giovanni. Sa che ci tengo molto agli auguri di Buon Anno e infatti gli altri anni me li faceva sempre. Ripensandoci non ha chiamato neanche il giorno di Natale, ma ho pensato fosse perché ci eravamo scambiati auguri e regali il giorno dell’antivigilia. Anche il ventuno novembre, per il mio compleanno,  non ha chiamato: si è fatto vivo il giorno dopo dicendo che si era completamente dimenticato. Forse queste dimenticanze non sono casuali;  potrebbe essere, inconsciamente, un modo per evitare di pensare a quando eravamo tutti insieme, oppure anche lui non si sente in grado di farmi gli auguri e di parlare di giorni che dovrebbero essere “di festa”. Ci si sente sempre a disagio nelle ricorrenze e si arriva persino a detestare giorni che prima erano sempre “speciali”. Si scopre così,  che speciali non sono i giorni, bensì le persone con cui li viviamo.

 


3 gennaio 2002

 

Un altro mese è passato e io sono ancora qui, ancora più smarrita del solito. Ancora non so cosa è successo il 2 ottobre, finora nessuno ci ha detto cosa è successo. Le cose incomprensibili, senza spiegazione razionale, sono ancora più difficili da accettare e io non me ne faccio una ragione, non mi rassegnerò mai ad accettare quello che è successo. Lo ritengo una violenza che ci è stata fatta e non accetto il fatto e, soprattutto il modo in cui è accaduto. Un modo tanto banale da sembrare finto, che accentua ancora di più l’impressione di essere all’interno di un film, in una vita irreale.

Ieri ho letto sul giornale un fatto analogo al nostro: una ragazzina di quattordici anni investita sotto casa, mentre attraversava per recarsi in farmacia, a prendere una medicina, per la mamma ammalata. Penso che la madre possa provare dei sensi di colpa e, persino,  incolparsi dell’accaduto. Ma credo che non sia vero; penso che, comunque, sarebbe accaduto, perché abbiamo tutti un destino già scritto, per taluni avvenimenti della nostra vita. Anche se ho sempre sostenuto che il destino ce lo facciamo da soli; intendendo con questo un certo modo di fare che ci fa operare delle scelte e prendere delle decisioni che alterano il corso della nostra vita. Però credo che certi avvenimenti della nostra vita siano già scritti e a noi spetta solo di recitarli, nel miglior modo possibile.  Ecco, mi sento proprio come se stessi recitando, perché la morte di Federica ancora non mi sembra vera, non può sembrarmi vera. Dopo che hai avuto una figlia per ventiquattro anni, non riesci a concepire un mondo senza di lei. Il cervello si rifiuta di ammetterlo, anche con sé stesso, e allora fa finta di essere un’altra persona e di guardare l’accaduto dal di fuori, mantenendo una certa distanza, proprio per proteggere la propria salute mentale.  Per la maggior parte del tempo, so che mi comporto come se non fossi veramente io la mamma, quindi sono molto addolorata, ma sempre in un modo sopportabile. Ogni tanto, però, sento che tutto è vero e percepisco in pieno tutta la sofferenza e la irreparabilità dell’accaduto. Nessuno ci può porre rimedio. NESSUNO!! Allora mi sento morire per la millesima volta e non capisco più chi sono e cosa sto facendo qui. Che scopo ho? Cosa potrò fare? Che cosa avrò voglia di fare? Avrò mai più voglia di fare qualcosa?

Spero di sì, di arrivare un giorno a sentire certe cose che sentivo prima e ad avere il desiderio di qualcosa che sembri veramente importante.

 


10 gennaio 2002

 

Oggi ho visto Annalisa. Abbiamo parlato molto, la sua amicizia è per me molto importante. Le ho consegnato gli appunti di quello che ho scritto finora. Nessuno sa che ho iniziato questa specie di diario, l’ho detto solo  a lei. Perché ho provato il bisogno di confidarlo a lei?  Perché ho paura che gli altri non capiscano e,  specialmente, ho paura di farlo leggere a chi mi conosce. So che Annalisa è in grado di capire quello che provo e non ha il coinvolgimento di chi ha conosciuto Federica.  Ha però lo svantaggio di volermi bene e, quindi, non so come potrà leggere i miei appunti senza esserne sconvolta.

Ho molto timore di fare leggere queste pagine a chi mi conosce, preferirei che le leggessero solo persone a me estranee. Credo che chi mi conosce, oppure ha conosciuto Federica non possa che rimanere sconvolto da questa lettura. Io non voglio seminare altro dolore.

Il ricordo dei primi giorni, delle telefonate che ho dovuto fare è ancora ben presente nel mio cuore. Penso spesso a quei primi momenti; le tante telefonate a Giuliano, le prime con la paura di quanto era successo e la non conoscenza della verità, l’ultima tacendogli ciò che sapevo perché stava rientrando in auto da Ravenna. Come potevo dirgli la verità, quando avevo piena coscienza del fatto che eravamo rovinati, che nessuno di noi sarebbe più stato lo stesso, e che,  forse, non saremmo più usciti da quel baratro di disperazione? Poi le telefonate a Giovanni, quando ancora non sapevo e farneticavamo di ospedali, elicotteri, e quella telefonata, tanto difficile quanto inevitabile.

Poi tutte le telefonate alle sue amiche, alle persone che non conoscevo ma ci avevano mandato dei telegrammi o biglietti molto affettuosi.

Giorni interi di strazio continuo; prima di affrontare una nuova telefonata dovevo recuperare le forze. Dosavo le telefonate, come fossero medicine, in modo da non provocare troppi effetti collaterali.

Il mercoledì mattina mi sono subito preoccupata di telefonare a chi non lo sapeva ancora; ho telefonato ai parenti che il giorno prima non erano stati avvisati e poi mi sono preparata al difficile compito di chiamare le sue amiche, prima che lo leggessero sul giornale.

Silvia era irraggiungibile e ho dovuto provare diverse volte. Finalmente mi ha risposto e ho dovuto dirglielo. La sua reazione mi ha sconvolto, ho sentito il suo dolore che si sommava al mio e diventava enorme. Quando ci ripenso sento ancora nelle orecchie le sue urla di dolore.  Quanto dolore si sparge nel mondo? A quante persone siamo legati e possiamo procurare angoscia con la nostra morte? Che ripercussioni avrà tutto questo su di noi e sul nostro modo di pensare e agire? Non saremo mai più le stesse persone, non è possibile. Quando accade qualcosa di così irreparabile la nostra vita ne è sconvolta fino alle fondamenta e, se non è molto solida, può crollare su sé stessa. Quante vite saranno sconvolte da una vita che finisce?

Questa telefonata è stata la prima di una lunga serie e tutte le volte è stata una dura prova. Sentire tutto questo dolore mi sfiniva. Ne sopportavo una e poi mi dovevo riposare, la pelle intorno agli occhi bruciava, si stava consumando con le lacrime.

Poi sono arrivati i telegrammi, arrivavano a pacchi. Hanno scritto veramente tutti, anche amici che aveva conosciuto tanti anni prima, i compagni e gli insegnanti di tutte le scuole che aveva frequentato e tutte le persone che ci conoscevano, anche non intimamente. La morte di una persona così giovane, e in modo così traumatico, sconvolge sempre moltissimo.

 Ho pensato di guardare anche nell’agendina di Federica, per evitare di dimenticare qualche amica con cui non ero in contatto diretto e ho trovato il numero di Maria Laura, che abita in provincia di Arezzo. Non l’avevo mai conosciuta di persona, solo sentita qualche volta al telefono. Ultimamente non si telefonavano quasi più, perché si scrivevano tramite e-mail. Ho dovuto prendere la decisione di telefonarle. Solita trafila, chi sono, attimo di pausa perché non si capisce perché debba telefonare io, spiegazione di un incidente, inevitabile angoscia e orrore. Maria Laura urla la sua disperazione e la mia diventa ancora più grande. Come farò a sopportare tutto questo dolore?

Prometto a Maria Laura di inviarle la foto di Federica e farnetico qualcosa a proposito della mia telefonata. Mi scuso per la schifosa notizia che le ho dato, era inevitabile.

Con la foto le ho mandato una lettera:

 

15 0ttobre 2001

 

Cara Maria Laura,

la morte di Federica ci ha lasciato tutti sgomenti nel nostro dolore. La vita non è giusta. E’ vero, ma lo sapevamo già, solo che si pensa sempre che non possa succedere a te e alle persone che ami. Io ho sempre pregato perché non mi capitasse la disgrazia di perdere mia figlia, credendo di meritarmi una simile fortuna. Ma io non sono diversa dalle altre persone e simili sventure succedono tutti i giorni in tutto il mondo, addirittura anche più orribili di quella che è capitata a noi. Ringrazio che Federica non abbia sofferto e che non sia rimasta a vegetare in un letto, cosa che avrebbe gettato lei e noi nella angoscia più totale.

Devo anche pensare, forse per proteggere la mia integrità mentale, che se è successo questo può essere capitato per evitare una cosa ancora più brutta, che avrebbe fatto soffrire Federica. Dobbiamo tutti andare avanti, cercando di fare come meglio possiamo, per noi stessi e le persone che ci amano e che amiamo.

Leggi le parole che sono scritte dietro la sua foto, le ha scritte lei qualche anno fa e me le aveva fatte leggere forse quindici giorni prima di morire. Federica vuole che noi andiamo avanti, comportandoci come abbiamo sempre fatto e vuole che cerchiamo di essere felici, anche se sarà molto difficile.

Noi siamo disperati e arrabbiati verso questa che crediamo sia una grossa ingiustizia, ma è necessario tutto il nostro impegno per proseguire nella nostra vita nel migliore modo possibile.

Se vuoi parlare con me in qualunque momento, o se hai bisogno per qualsiasi cosa, puoi scrivermi, anche per posta elettronica o telefonarmi.

Ti abbraccio

Morena



13 gennaio 2002

 

Stasera Giovanni è venuto a cena. E’ stata la prima volta, dopo l’incidente. L’avevo già invitato altre domeniche, ma non aveva ancora accettato. Oggi ci siamo telefonati, come tutti i fine settimana, e ho riprovato a invitarlo. Quando ha accettato mi sono meravigliata, ma ne sono stata felice. Sento che sto recuperando qualche cosa della mia vita, che sto rivendicando i miei diritti; avere una casa che si possa chiamare tale, cioè un luogo dove ti senti a posto e dove puoi invitare gli amici e cucinare per loro, senza dovere andare a casa d’altri, perché non riesci più a stare in casa tua.

Capisco benissimo come sia stato difficile per Giovanni accettare, perché la cena della domenica era per noi quasi un’abitudine. Quando si fanno cose che si era abituati a fare prima è ovvio che si noti ancor di più la mancanza di Federica. So che per Giovanni è difficile anche vederci, ma sento anche quanto sia importante per lui mantenere i contatti con noi. Io gli voglio molto bene, perché è un ragazzo meraviglioso e perché ha reso mia figlia ancora più felice. Sono molto preoccupata per Giovanni, perché so che quanto è successo ha generato un insieme di sentimenti che non sono formati solamente da dolore e rimpianto. Anche per lui sono presenti tutti quei sentimenti che provo io. Come potrà affrontare nuove conoscenze o l’inizio di un nuovo rapporto, senza sentire su di sé la minaccia di una disgrazia?  Avrà la forza sufficiente per farlo? Questa tragedia l’ha toccato profondamente, in un modo di cui non si rende pienamente conto neppure lui.  Allo stesso modo, come riuscirà a portare avanti una nuova amicizia, senza fare paragoni con la ragazza che gli è stata strappata e che, perciò, è diventata ineguagliabile? 

Oppure potrebbe correre il rischio inverso, cioè farsi prendere dalla fretta e cercare un affetto a tutti i costi; pensando che il nuovo affetto possa fare sparire il dolore.

Credo, per certi aspetti, che la sua situazione sia peggiore della nostra; in lui rimane l’ansia di riempire quel vuoto, lui è molto giovane ed è giusto che ritorni ad amare e cerchi di formarsi una famiglia.

Invece io non voglio riempire quel vuoto, il posto di Federica è solo suo, sento che è giusto così, e sono contenta che io non abbia l’età giusta per avere figli. Non ne vorrei in questo momento. E’ possibile che io parli così proprio perché non ho l’età giusta e, se fossi più giovane, forse proverei a rimanere incinta?

L’altra sera ho letto un racconto di Hermann Hesse, “Il pesco”,  che mi ha chiarito quello che provo:

“... quando avevo visto l’albero a terra, avevo pensato, come sempre di fronte a tal genere di perdita, a un sostituto, a una nuova pianta. Al posto dell’albero caduto, avremmo scavato una buca e l’avremmo lasciata aperta per un bel po’,  all’aria, alla pioggia e al sole, nel buco avremmo buttato col tempo un po’ di letame, un po’ di concime vegetale e rifiuti di ogni genere mischiati a segatura; poi un giorno, possibilmente sotto una pioggerella tiepida, avremmo piantato un nuovo, giovane alberello. Anche a questo giovanetto, a quest’albero bambino sarebbero probabilmente piaciuti la terra e l’aria di qui, anche lui sarebbe diventato un buon compagno e un buon vicino della vite, dei fiori, delle lucertole, degli uccelli e delle farfalle; nel giro di un paio d’anni avrebbe avuto frutti; ogni primavera, nella seconda metà di marzo i suoi fiori sarebbero spuntati e, se il destino fosse stato benevolo, ormai vecchio e stanco sarebbe caduto vittima di qualche tempesta, di una frana o di un’abbondante nevicata.

Questa volta tuttavia non riuscivo a decidermi a ripiantare. In vita mia avevo piantato parecchi alberi, non dipendeva da questo in particolare. Dentro di me qualcosa si opponeva a rinnovare il ciclo anche qui, a mettere di nuovo in movimento la ruota dell’esistenza, a crescere una nuova preda per la morte ingorda. Non voglio. Il posto deve restare vuoto.”

Allora anch’io ho pensato: Non voglio. Il posto deve restare vuoto!

 


16 gennaio 2002

 

Annalisa mi ha mandato una e-mail. Dice che ho fatto un buon lavoro e lo definisce “ scritto con straziante lucidità”. Mi spaventa un po’ questa definizione; capisco che leggere quello che ho scritto, possa causare a  chi legge strazio e angoscia, simili a quelle che sto vivendo, e mi fa pensare che forse ho fatto male a farlo leggere ad Annalisa. Forse ho abusato della sua amicizia, spingendola a vivere quelle emozioni che mi hanno sconvolta. Credo non sia stato facile per lei immergersi fino in fondo a questo abisso che sono i miei sentimenti. Certo, si dice sempre: “Deve essere tremendo. Sarà un dolore atroce, poveretti!” ma in verità non si può comprendere veramente come sia ampio questo dolore, quali e quanti meccanismi vada a toccare, finché non lo si prova o qualcuno non te ne parla senza false reticenze. 

Chiamarlo solo dolore è molto riduttivo e superficiale; è anche smarrimento, sfiducia, pessimismo, insicurezza, disorientamento, perdita di identità  e paura. Un insieme così complesso di sentimenti ed emozioni, molte senza un nome certo, che contribuiscono ad aumentare il senso di irrealtà e di apatia che ci circonda come una massa vischiosa accentuando il nostro senso di immobilità.

Questo è quello che ho pensato, fin dai primi giorni dopo la morte di Federica. Avendo vissuto l’esperienza , come amici, di Franca e Piero quando è morta la loro figlia Beatrice, ed intuendo l’enormità di questo dolore, avevo sempre pensato che fosse intollerabile. Ma non potevo sapere quanto! Non potevo capire tutti i collegamenti che si formano e i vari aspetti che si alterano; non lo potevo fare perché non lo sapevo, perché nessuno parla di ciò che succede, di quello che sente veramente e allora si finisce per ridurre tutto questo a una sola parola: dolore!

Siccome Beatrice è morta a causa di una malattia tumorale del sangue e in seguito, tramite il volontariato di Federica e l’argomento della sua tesi, avevamo parlato spesso di questo argomento, non ho potuto evitare di cercare eventuali collegamenti e affinità tra quello che è capitato a noi e quello che era successo ai nostri amici.

Lo choc, che per i familiari di chi muore in un incidente, è forte, violento e spesso corrispondente al momento della notizia della morte, è sconvolgente a livelli altissimi in tutti i casi. Per i familiari di chi ha ricevuto una diagnosi di malattia, invece,  lo choc si verifica proprio in quel momento: cioè al ricevimento della notizia, che diventa, perciò, il momento in cui ci si chiede: “Perché!”. La comunicazione della diagnosi diventa, quindi, il momento da superare, sapendo, inoltre, che da quel punto in avanti la situazione potrebbe diventare sempre più precaria. E’ proprio questo il momento equivalente allo choc provato alla comunicazione dell’incidente; il momento delle interrogazioni, del voler capire  a tutti i costi qualcosa che è inspiegabile.

Forse tutti questi pensieri erano inutili; ognuno ha la sua strada da percorrere e non è mai facile! Ma io ho sempre questo bisogno, questa urgenza di interrogarmi, di voler capire e dopo l’incidente questo mio bisogno si è enfatizzato...

 


18 gennaio 2002

 

Il freddo non ci abbandona quest’anno. Un inverno così gelido e per così lungo tempo come questo, erano anni che non si presentava. Molte piante a cui volevo bene si sono gelate e, forse, non si riprenderanno più. La casa si è riempita di crepe, dicono per la troppa siccità. Provo quasi un po’ di soddisfazione per tutte queste cose. Le sento giuste, perché si abbinano perfettamente al mio stato d’animo. Anche le cose inanimate si rivoltano per quello che provo. Sono solidali con il mio dolore.

Tutto questo contribuisce ad alimentare questo periodo di stasi totale, dove sento che non sto facendo niente di importante, niente di vero. Forse perché non so cosa dovrei veramente fare, cosa potrebbe rendermi, se non felice, almeno serena. Cosa facevo prima, che mi rendeva felice?

 


19 gennaio 2002

 

Oggi ha telefonato Elena, per sapere come stiamo e chiedere aiuto per il suo lavoro a maglia. L’ho invitata a raggiungerci, per lavorare un po’ insieme. Sono molto contenta se lei e Silvia ci vengono a trovare, oppure telefonano per sapere come stiamo. Apprezzo la loro compagnia e la loro amicizia.

Quando siamo insieme parliamo di tutto e ridiamo, sembra tutto così normale! Ogni tanto mi sembra anche assurdo che riusciamo a godere della compagnia altrui, ma poi mi dico che non esiste altro modo di vivere; è necessario saper cogliere ogni cosa buona da qualsiasi situazione.

Certe volte mi chiedo anche che cosa le spinga a starci così vicino; fin dall’inizio ci hanno viziato di telefonate, visite e compagnia. Forse rimanendoci accanto si sentono meglio, perché hanno la possibilità di vederci e  di tranquillizzarsi.  Forse vogliono essere di aiuto in un momento così difficile e provano un grande dolore per noi, oppure amavano tanto Federica da voler continuare ad amarla tramite noi. Non mi interessa analizzare il motivo, prenderò la loro amicizia e ricambierò il loro affetto, credo che questa sia la cosa più importante.

Qualunque sia il motivo della loro amicizia ne sono grata e felice. Il giorno del funerale, quando le ho invitate a venire a trovarci, hanno detto scherzando che sarebbero diventate le mie figlie adottive, ma non credevo che le avrei viste e sentite così spesso. Mi hanno veramente sorpreso con la loro forza e il loro coraggio. Sono cosciente del fatto che ci voglia coraggio, per starci così vicino come fanno loro. Non perché  siamo persone difficili o perché siamo tristi, anzi direi il contrario. Però è logico che la nostra vicinanza possa incutere timore, soprattutto per chi non ha ancora accettato l’idea della morte e non capisce il nostro atteggiamento. Non avrei mai pensato che due ragazze così giovani fossero in grado di prendersi cura di noi, eppure è così. Un’ulteriore conferma del fatto che Federica sapeva scegliere le amicizie e era, anche lei, una buona amica per gli altri.

All’inizio avevo anche pensato che le amiche di Federica, provando un dolore così forte, vedendo noi soffrire così atrocemente e conoscendo la morte così da vicino, potessero farsi condizionare e pensare di non avere figli. Ho poi scoperto che il timore era solo mio, probabilmente perché tutte le mie emozioni sono amplificate e tendo a pormi tutti i problemi del mondo, come se potessi qualcosa!

Proprio l’ultima volta che ci siamo viste, hanno parlato tutte e due dei figli che vorrebbero e ho capito che ci tengono veramente tanto. Mi sono data della stupida, mi preoccupo sempre troppo! La vita è più forte del resto!

 


22 gennaio 2002

 

Mi sono ricordata dei soldi che sono ancora nel suo portafogli. Li prenderò, per portarli in banca e cambiarli in Euro,  fra un po’ saranno inutilizzabili. Le avevo dato centomila lire il sabato sera, quando si preparava per uscire con Giovanni, quindi doveva averne ancora. Il portafogli è ancora dove l’ho messo il 4 ottobre quando, cercando quel foglietto con la sua frase, l’ho aperto per la prima volta. Avevo visto vagamente cosa c’era, perché ero interessata solo a quel foglietto che ricordavo così bene. Mi sento un po’ in colpa ad aprire una sua cosa così intima, ma sarebbe sciocco non farlo. Prendo i soldi, settantaduemila lire, e lo richiudo subito. Guarderò un altro giorno cosa c’è rimasto. Lo rimetto al suo posto, dentro alla borsa, quella borsa che le avevo comprato io e che era finita in fondo al fosso!

Devo sempre rimandare queste incombenze penose, faccio ancora tanta fatica  a guardare nelle sue cose, mi sembra di frugare nella sua intimità. Soprattutto trovo pesante emotivamente guardare tutte queste cose, perché ognuna rappresenta un pezzetto della mia bambina, in ogni foglietto che ha scritto c’è lei, ogni disegno me la ricorda, ogni oggetto.

Guardo tutte queste cose e mi dico: “Come era brava! Quante cose sapeva fare!” oppure “Questo gliel’avevo insegnato io!” e ogni oggetto ha una sua storia e io non uscirei più da quella camera e da quella disperazione!

 


24 gennaio 2002

 

Oggi ho acceso per la prima volta, la radio. La sua radio. Non che avessi particolarmente voglia di musica o chiacchiere, ho voluto provare. Alla mattina era un’abitudine; intanto che mi vestivo Federica mi aggiornava su tutte le ultime notizie. Adesso non so più niente. Quando c’era una canzone che ci piaceva molto, entravo in camera sua ballando, mentre cercavo di infilarmi i pantaloni. Lei rideva  e si toccava la fronte, per dire che ero matta, ma ne era divertita. Ridevamo ognuna del divertimento dell’altra.

Quante persone ho perso? Una figlia, ma anche la mia interlocutrice principale, il mio stimolo per imparare sempre cose nuove, la mia spalla e la mia prima ballerina, per i nostri folli Sirtaki quando in televisione passavano “Zorba il greco” – adorava la Grecia -, la mia principale fan - era sempre molto prodiga di complimenti -, l’assaggiatrice ufficiale dei piatti che cucinavo, la mia “prima lettrice” - come farò ora a sapere se quello che scrivo può piacere?

Dopo un po’ la radio mi disturbava e l’ho spenta.

 


25 gennaio 2002

 

 Guardando gli alberi, immersi nella nebbia:


      Gennaio

 

Ricami  di rami sul bianco silenzio del cielo.

Nidi vuoti su sostegni assopiti,

guardo e sento che  ci sarà un nuovo inizio.

 

 

Non scrivo mai versi o poesie. Mi sono ricordata che, invece, avevo scritto qualche frase, più che altro una riflessione, in settembre. Erano parole riferite a ciò che avevo provato in agosto.

Agosto era stato un mese strano, durante tutto il mese mi sono sentita come sospesa, in attesa di qualcosa. Nello stesso tempo sentivo profondamente, fino all’interno della mia anima, che il mio sentirmi sospesa, scambiato per ricerca di cambiamenti(credevo di dover cambiare lavoro), non mi faceva perdere di vista ciò che conta veramente. Mi sentivo in simbiosi con la natura e con il cielo sereno del mese estivo. Alla mattina mi sedevo per godermi il fresco del giardino, dietro la casa, e guardavo le rondini intrecciare i loro voli sopra alla mia testa. Rileggevo la tesi di Federica, correggendo eventuali errori e sentivo che lei era al piano di sopra per terminare l’ultimo capitolo. Sentivo anche quanto ero amata ed ero grata per questo.

Una mattina di queste, mi sono venute in mente delle parole, che esprimevano una piccola parte di quello che provavo. Non le ho scritte subito, non avevo mai scritto versi o riflessioni,  non mi erano neanche mai venuti in mente. Ogni tanto ripensavo a quelle sensazioni e ritrovavo subito quelle parole.

Poi agosto è finito e ho ripreso il lavoro. Una sera, ero già seduta sull’autobus, me le sono ricordate improvvisamente e le ho scritte sull’agendina che avevo in borsa. Non le ho più guardate, credo di non avere più aperto l’agendina.

Sono andata subito a cercarla:

 

Serenità

 

Una bella mattina d’estate,

la mente libera,

gli occhi persi nel cielo,

tanto limpido che puoi vedere cosa c’è dietro.

L’odore del bucato steso al sole,

portato dal vento leggero,

il cane che dorme ai tuoi piedi.

In un altro luogo qualcuno ti pensa.

E tu sai benissimo che

qualunque cosa tu possa chiedere e ottenere,

non sarà mai più importante

di quello che hai ora.

 

Leggendola ora, la sento come una previsione, ma forse sono io che do a tutte le cose un certo significato. Se allora l’avessi pensato non sarei più uscita di casa. Spesso mi capita di pensare: “ Se, quando siamo bambini, qualcuno ci facesse un certo tipo di previsioni, avremmo ancora il coraggio di provare a vivere? Se sapessimo che cosa ci capiterà, faremmo le stesse scelte, oppure eviteremmo gli ostacoli e ci toglieremmo la capacità di provarci? ”.

Credo che sia sempre una scelta che dipende dal carattere delle persone. Certo che sapere le tue disgrazie future, potrebbe impedire certe scelte.

Quando è morta Federica, ho sentito commenti di tutti i tipi: “ ... la vita è proprio uno schifo!... dopo tanti sacrifici! ... così una bella famiglia, non lo meritavate! ...”

Chi è che se lo merita? Spero nessuno! Non credo che la vita sia uno schifo, credo ci siano delle circostanze molto brutte e difficili. C’è anche chi ha avuto una vita veramente orrenda, persone che per tutta la loro esistenza hanno dovuto lottare contro difficoltà enormi. Io non mi sento di essere tra queste persone.

Sì, mia figlia è morta, però è vissuta splendidamente per ventiquattro anni e tutti noi abbiamo conosciuto la felicità totale. Poi ci è stata tolta e ancora non so il motivo, ma questo non mi autorizza a dire che la mia vita è stata brutta o infelice. In questo momento sono disperata, ma ho ancora la capacità di cogliere  e sentire l’angoscia degli altri. 

In novembre c’è stata una grossa tragedia a Bologna, a cui il giornale ha dato molto risalto: una ragazza handicappata è morta perché una fuga di gas nella sua abitazione,  ha causato un incendio. L’indirizzo era quello della strada dove abitavo tanti anni fa, nella zona in cui avevo sempre abitato fin dalla nascita.

Ho pensato potesse essere una persona che conoscevo ed ho seguito la vicenda. Qualche giorno dopo si è cominciato a parlare della eventuale colpa del padre o della madre. La ragazza aveva quasi trenta anni, era nata con una malformazione e per tutta la vita era stata accudita come una bimba piccola dalla madre. Ho collegato tutto con le immagini di una bambina che aveva  frequentato le scuole elementari insieme a me e, in seguito, avevo sentito che aveva avuto una figlia handicappata. Ho capito subito che era lei. Quando, con il proseguimento delle indagini, si è capito che la madre aveva aperto il rubinetto del gas, perché non ne poteva più della vita orrenda che era costretta a subire da trenta anni, quando ho sentito l’abisso di disperazione in cui è possibile cadere, ho provato un’angoscia enorme. Poi ho avuto la certezza che era veramente la mia compagna delle elementari e ho pianto pensando alla nostra incoscienza da bambini inconsapevoli e alle tragedie che, comunque, ci aspettano.

 


29 gennaio 2002

 

Mi domando spesso se abbiamo sbagliato ad avere solo una figlia. Credo che il dolore sarebbe stato uguale, avrei sentito la mancanza di un figlio anche se ne avessi avuto altri cinque. Ognuno riempie il suo personale posto e nessuno lo può sostituire. Però se avessi avuto altri figli, adesso sarei ancora mamma. Ma non sarei comunque la mamma di Federica. La perdita sarebbe la stessa, ma di quanti timori e responsabilità sommergerei questo figlio? Che carico emotivo dovrebbe sopportare, quante angosce?

Ricordo come fosse ora la nascita di Federica. Prima dicevo di volere due figli, ma quando l’ho vista ho pensato: “ Credo che non avrò altri figli, mi voglio dedicare a questa bambina e darle tutta l’attenzione possibile. E anche tutte le possibilità ”. Infatti le ha avute e, cosa più importante, non le ha sprecate e ha saputo dare il giusto valore alle cose. Penso spesso “ Avevamo proprio fatto un bel lavoro! Era veramente una brava ragazza e una persona eccezionale!”  

Poi mi dico: “ Allora perché la sua vita è stata interrotta? PERCHE’? ”

Federica è stata derubata della sua vita e di tutti i suoi sogni, ma forse no, i suoi sogni li ha avuti, è stato solo il loro conseguimento che non è riuscita ad avere.

Allora sono io che mi sento derubata di un mio diritto, il diritto di proseguire la vita con mia figlia e di vivere insieme a lei il suo futuro. Derubata di una cosa che avevo saputo fare bene, almeno così mi dicono gli altri. Così è quello che sentivo. Avevo la percezione della grande intesa e affiatamento che esisteva tra Federica e me, anche quando non eravamo insieme. Tutto questo mi manca, come la mia identità. Sento di non sapere più che sono, mentre ho sempre avuto piena coscienza di me stessa, di quello che facevo o potevo fare. Se dovessi iniziare adesso una nuova attività, non ne sarei capace, mentre in passato non mi sono mai tirata indietro. In questo momento il mio spirito d’iniziativa non esiste. Fortunatamente gli amici mi hanno proposto un lavoro e mi hanno tolto dall’imbarazzo di doverlo cercare. Anche qui mi sono domandata se me l’hanno offerto per pietà e amicizia, poi mi sono detta che non sono in condizioni di fare la difficile. Ci penserò più avanti. Adesso devo solo arrivare a domani.

 


30 gennaio 2002

 

Ogni tanto mi imbatto in qualcuno che non vedo da tempo e che pronuncia una frase che mi fa veramente irritare: “ Sì, voi siete veramente forti! ”. Una frase che, detta da qualcuno che non ci frequenta o ci conosce poco, trovo troppo sbrigativa e superficiale. Chi lo dice sembra contento della nostra forza, che permette a lui di non preoccuparsi. Una persona forte potrebbe essere quella che, a suo agio sulla terraferma, decida di tuffarsi in mare per una traversata lunga e pericolosa. Io, invece, fiduciosa di avere tutto quello che volevo, sono stata scaraventata a mollo nell’acqua gelida, nessuno mi ha chiesto se sapevo nuotare e non mi hanno neanche detto quanta distanza devo coprire, in modo che io possa dosare le mie forze. A questo punto, non si tratta di forza; le scelte sono solo due: lasciarsi andare a fondo e annegare, oppure cercare di nuotare alla meno peggio, giusto per sottrarsi all’annegamento. Sicuramente non voglio lasciarmi andare a fondo, anche se non so ancora in che condizioni potrei arrivare all’altra sponda; forse in condizioni tali da non permettere una mia salvezza completa. Non so neanche quanto è lontana l’altra sponda!

Quindi la differenza tra noi e una persona forte è che noi non abbiamo potuto scegliere, ci è toccata questa disgrazia e dobbiamo, in qualche modo cavarcela. E’ la stessa cosa che capita a chi scopre di avere un cancro; gli altri dicono di lui: “ E’ molto forte! Ha affrontato la sua malattia e ce la mette tutta per sopravvivere!”

Si dicono queste frasi perché, inconsciamente, si pensa sempre di esserne fuori, di poter guardare dai margini del campo. Si tende sempre a pensare che questi grandi dolori siano cose che sono toccate ad altri, perché loro sono in grado di superarli, mentre noi invece non potremmo farcela. Fornendoci così un alibi che ci impedisca di soffrire: “Noi non potremmo mai superare una simile sofferenza!” e, quindi, ci auguriamo di non doverla mai provare.

Sì, è vero, ci sono persone che reagiscono meglio a certe disgrazie, però credo anche che sia istintiva la reazione di voler respirare fuori dall’acqua.  Quando ti tocca, bisogna tirarsi su la maniche e provare di stare a galla.

  Continua

 

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