associazione italiana familiari e vittime della strada - onlus

Diario :  8 dicembre - 27 dicembre

 

8 dicembre 2001

Una coppia di amici che abita in un’altra città ci ha invitato a passare questa giornata di festa insieme a loro. Abbiamo parlato di tanti argomenti, fino ad arrivare a parlare dei tanti impegni che si hanno e di come sia difficile conciliarli tra lavoro e famiglia. In questi casi mi sento un po’ sottovalutata, come se non potessi più parlare di questi problemi, anche se li posso capire benissimo perché fino all’altro ieri ho portato avanti lavoro e famiglia in un modo che mi soddisfaceva pienamente. Adesso, però, mi sento in difficoltà a intervenire su questo argomento; ho paura che qualcuno mi dica, anche se non con l’intenzione di ferirmi: “Tu adesso sei libera, devi solo pensare al lavoro e hai tempo per tutti i tuoi interessi. Io, invece, devo correre dopo il lavoro, per portare i miei figli in palestra e per seguirli”. Sembra quasi che la gente mi invidi: come è possibile? Sono io che invidio loro che hanno un figlio da portare in palestra! Spero capiscano quanto sono fortunati!

Anche se lo capiscono, spesso si pensa comunque, che certe cose non ci potranno mai toccare. Forse è il nostro cervello che si crea un utile difesa contro la temuta possibilità di una disgrazia.

Mi domando spesso perché ci è successa questa disgrazia, che certe volte viene scambiata per un insegnamento, come che qualcuno dica: “ Avete visto cosa è veramente importante nella vita? Adesso lo avete imparato!” MA IO LO SAPEVO GIÀ! Sapevo cosa era importante! Spesso alla sera mi sedevo, dopo cena, a giocare a carte con Federica, solo perché a lei faceva piacere. Forse avrei desiderato fare qualcos’altro, ma non c’era niente che mi facesse più piacere di renderla felice e di godere della sua compagnia.

Anche quando mi chiedeva di aiutarla a preparare la tesi, scrivendo al computer intanto che lei dettava, oppure di controllare se c’erano errori e correggerli e, anche, di fare ricerche per il materiale, cercavo sempre di mettere in secondo piano gli altri lavori che dovevo fare, per aiutarla.

Quindi ero cosciente di cosa è veramente importante nella vita: non il lavoro, la carriera, i soldi, acquistare cose lussuose, i viaggi. Ciò che consideravo veramente importante era la famiglia, le altre cose venivano dopo e se non le avevo era lo stesso.

Però avevo ricevuto ugualmente questo insegnamento; perché? Perché era necessaria la morte di Federica? A chi serviva? Ci sarà uno scopo quando succedono queste cose, o succedono per caso? Tutte queste domande mi tormentano sempre.

All’inizio credo che, per tutti, sia come un fatto personale; si pensa che sia un avvenimento proprio diretto a noi e alla nostra persona. Una punizione per qualcosa che abbiamo detto o fatto. Si va a rivangare nella memoria per trovare il fatto che può avere causato l’ira di qualcuno, un comportamento non proprio cristiano, un po’ di incomprensione per le disgrazie altrui, ma poi si realizza che non è possibile che una frase insofferente nei confronti di qualcuno o poca generosità nei confronti di un altro possano scatenare una disgrazia simile. E’ evidente che non siamo noi a causare questi tragici avvenimenti.

 

11 dicembre 2001

Qualche giorno prima che Federica morisse, parlando con un’amica, commentavo che spesso le famiglie che subiscono la  disgrazia di perdere un figlio, poi si sgretolano facilmente. Io sostenevo che, forse,  il matrimonio era in difficoltà già da prima e che poi, la mancanza del figlio che fungeva da “collante” in questa unione disagiata, aveva fatto precipitare la situazione. Oggi, ho capito che, in certe situazioni, vedere chi ami che sta soffrendo, è tanto difficile che vorresti trovarti a mille miglia di distanza. Verrebbe la tentazione di andarsene ad abitare in un’altra casa, addirittura in un’altra città. E’ molto più difficile frequentare coloro che ami, piuttosto che conoscenti con cui hai dei rapporti meno intensi. Ecco il motivo per cui, forse, certi matrimoni e certe famiglie si sfasciano. La sofferenza che si ha in comune può dividere.

Questa è anche la ragione per cui chi ti ama di più, qualche volta, non riesce ad aiutarti come vorrebbe. Infatti, ho notato che i parenti più vicini, quando mi incontrano, non chiedono mai: “ Come stai? Come state? ”, anzi se ne guardano bene. E non è che non gli interessa niente di questo, è che sanno già che soffro e saperlo li fa soffrire di riflesso, quindi evitano di chiederlo. Pensano anche che è ovvio che io stia soffrendo molto e, quindi, gli sembra una domanda stupida, oppure credono che, se mi chiedessero qualcosa, potrebbero aumentare la mia sofferenza facendomi ricordare che mia figlia è morta. Non sanno che ciò non è possibile, perché non esiste un solo secondo in cui io non pensi a questa mancanza.  Anzi, certe volte, parlare di come ci si sente, potrebbe essere utile; sfogarsi e lasciare uscire i sentimenti tramite le parole, può fra comprendere meglio a te e agli altri come ti senti e cosa provi. Non solo, ma può aiutare a esorcizzare il dolore: parlarne con gli altri, spiegarlo a qualcuno, ti può aiutare a renderlo più sopportabile o, almeno, più comprensibile.

 

11 dicembre 2001

Sono passati tre mesi esatti dall’attentato contro le torri gemelle di New York  e tutti i Telegiornali hanno fatto vedere le immagini di quel giorno tremendo e hanno passato delle nuove interviste ai parenti delle vittime. Ho provato un’angoscia tremenda, ho rivissuto per l’ennesima volta la sofferenza provata nel momento in cui ho appreso che Federica era morta. Quando vedo al TG, delle immagini  di parenti di qualcuno  morto in un incidente, mi identifico con il dolore della persona che è intervistata e lo faccio mio, perché è il mio dolore. L’attentato alle torri è, comunque, molto legato all’immagine di mia figlia, perché, quel giorno, quando ha sentito la notizia alla televisione mi ha subito telefonato in ufficio per dirmelo. Era sconvolta e molto agitata. Io non avevo capito la portata della cosa, perché non mi rendevo conto, non avendo visto le immagini. Quando sono tornata a casa mi aspettava in giardino, per darmi subito le ultime notizie e il numero delle vittime, per fortuna poi rivelatosi inesatto. Poi abbiamo proseguito guardando assieme i vari servizi e abbiamo condiviso sentimenti quali orrore, pietà, sgomento, paura. Soprattutto credo che ci colpisse l’ansia dei parenti, che non sapevano se i loro cari erano rimasti sotto le macerie, e la consapevolezza che in qualsiasi momento tutto ciò può accadere ad ognuno di noi, anche se non ti rendi conto chi siano veramente i noi di cui si parla.  La fragilità della vita ci aveva rese ancora più unite e, una volta di più, mi ero resa conto di quanto mia figlia avesse ben chiari i veri valori dell’esistenza. Tutte le volte che la televisione ci farà vedere le immagini dell’11 settembre mi rinnoverà anche il dolore per la perdita di una persona meravigliosa e mi rammenterà la responsabilità, che tutti noi abbiamo, di spiegare ai nostri figli quanto sia fondamentale il rispetto degli altri e della loro vita.

 

12 dicembre 2001

Ho sempre avuto un rapporto strano con il cimitero. Non mi fa paura e non mi fanno paura i morti, ma non l’ho mai frequentato volentieri.  Andavo a “trovare” mio padre, poche volte, soprattutto per cambiare e sistemare i fiori. Non amo sapere che la tomba è disordinata, come abbandonata. So di molte persone che vanno tutti i giorni al cimitero, come a trovare le persone. Penso che per loro sia una forte necessità, e capisco che ognuno abbia un approccio diverso con la morte e il dolore. Io non sono capace di sentire questa necessità, non la sento come un bisogno, perché credo che le persone morte non siano lì: credo che siano con me. Anzi, adesso, mi è diventato quasi insopportabile andare al cimitero, tutte le volte è sempre peggio. Oggi ho portato delle piccole stelle di Natale, ma ho provato un’angoscia tanto forte da togliermi il fiato. Tutte le volte ricevo un pugno allo stomaco, sarà perché lì c’è la prova certa della irreparabilità dell’accaduto. La prova che è vero!

Ironia della sorte mio padre, morto nel 1987, è stato per 14 anni al cimitero della Certosa a Bologna. Sembrava dovesse avvenire l’esumazione dieci anni dopo, invece è stata rimandata diverse volte, finché è stata fatta l’estate del 2001. Siccome nel frattempo siamo venuti ad abitare in campagna abbiamo deciso di portarlo nel cimitero vicino a casa, in un ossario. Quello di fianco al suo era ancora vuoto, quando Federica è morta, così dopo 14 anni il nonno fa di nuovo compagnia alla nipote!

Li potrei andare a trovare tutti e due contemporaneamente, se non mi riuscisse così difficile. Sono una madre anomala, per questo? Esiste una regola che dice quante volte bisogna recarsi al cimitero? Non so, credo che per ognuno sia giusto adeguarsi a quello che sente. Dobbiamo prima di tutto essere in pace con noi stessi e adattarci a tutti questi nuovi sentimenti, agendo come ci suggerisce il cuore.

 

16 dicembre 2001

Oggi ha telefonato Elena. Le ho chiesto come è andata la giornata di giovedì, (doveva discutere la tesi e essere proclamata dottore in Economia ). Intanto che mi raccontava tutto mi sono commossa, pensando alla felicità dei suoi genitori e che dovevamo provare anche noi, per la laurea di Federica . Forse lei ha pensato di avermi causato infelicità, raccontandomi della sua gioia. Non è così; la felicità degli altri non mi genera nè tristezza, nè invidia. Anzi sono soddisfatta se sento che le persone che amo sono felici. Sento fortemente il bisogno di sapere che le famiglie di chi amo, continuano nella loro vita, occupandosi dei loro figli e traendo il massimo della felicità da ciò. Lo trovo molto rassicurante. In questo modo sento che la vita prosegue e so che per qualcuno c’è ancora la possibilità di essere felice. Riconquistare qualche certezza mi aiuta molto, in questo periodo di grande insicurezza e confusione.  Allora penso che, forse, fra qualche anno (quanti saranno?) potrò essere serena.

 

18 dicembre 2001

Certe volte mi domando se sarà mai possibile per me guidare l’automobile, oppure prendere l’autobus, senza piangere. Adesso quando guido e sono sola, il pensiero va sempre a Federica e le lacrime tendono a scendere da sole. Intanto che guido guardo anche tutte le persone che camminano e mi dico: “ Quel ragazzo ha attraversato la strada, eppure è vivo! Perché Federica invece è stata investita? Ci sono tante persone che camminano per strada tutti i giorni e tornano a casa. Perché era necessario che Federica morisse? ”. Credo che me lo domanderò finché sarò in vita. Purtroppo anche il modo balordo in cui è successo l’incidente non contribuisce a farmi capire, non riesce a far sì che io possa accettare ciò che è successo. Io non mi rassegnerò mai. MAI! Non accetterò mai questa disgrazia. Capisco, con una parte del mio cervello, che devo farlo, ma con tante altre parti non lo capisco. Razionalmente mi faccio tutti questi bei discorsi: “ Sì, è necessario che tu accetti la morte di tua figlia, perché è già accaduta e tu non ci puoi fare niente. Bisogna che tu prosegua nella tua vita, senza di lei. Ti devi rassegnare e andare avanti a vivere. ” VIVERE? Come cavolo faccio a vivere? Per che cosa vivrò? Cosa ci può essere che mi provochi tanto interesse da farmi rimanere qui? Non provo più lo stesso piacere, anche facendo le cose che già mi piacevano. Non capisco più perché devo farle. A chi servono? Niente ha più la stessa importanza che aveva prima.

Quando cammino per strada, guardo le vetrine, automaticamente, perché è quello che ho sempre fatto, anche solo per curiosità. Le guardo e mi capita anche di vedere qualcosa che mi sembra bello. Ma non c’è niente che valga veramente la pena di comprare. Guardo i vestiti, le maglie, poi penso che non mi servono, a che cosa servono? Tutto mi è diventato superfluo. Ieri sono andata in un negozio a comprare qualche regalo natalizio per Giuliano e mia suocera. Intanto che mi trovavo lì, ho provato due gonne e le ho comprate, non so neanche perché. Mia mamma, che si trovava con me, è sembrata molto contenta e anche mio marito ha apprezzato. Credo che siano contenti perché hanno dato un significato diverso al mio acquisto. Probabilmente lo hanno interpretato come un ritorno di interesse per qualcosa di futile, come l’abbigliamento.

In questo momento, credo che potrei fare qualsiasi cosa e tutti mi perdonerebbero, perché pensano che tutto mi sia dovuto. Visto la disgrazia che mi è successa...

Se mi comportassi da maleducata, se avessi degli scatti nervosi, forse tutti lascerebbero correre, dicendo: “ Poverina! Con quello che le è capitato, non ci si deve meravigliare, anche se le saltano i nervi! ” Certe volte mi verrebbe il desiderio di provare...potrei essere cattiva verso gli altri. Forse mi farebbe stare meglio.

Qualche giorno fa sono andata all’Ufficio IVA per consegnare la dichiarazione di cessazione attività. L’impiegata, incuriosita dal lavoro insolito che svolgevo, voleva sapere se era interessante. Quando le ho risposto di sì, mi ha chiesto il motivo per cui cessavo l’attività. Ho provato un briciolo di soddisfazione, dicendole:

“ Perché è morta mia figlia. ” Ho pensato: così impari a chiederlo! Ho un motivo serio per quello che faccio. Cosa credi? Sto soffrendo molto.

Ho capito che si corre il rischio di diventare “cattivi”, oltre a maleducati, intolleranti. Tutto sembra insopportabile e si può sentire il bisogno di sfogare la propria frustrazione sugli altri.

 

19 dicembre 2001

Oggi mi ha telefonato una ragazza che ho conosciuto con la mia attività. Le avevo dato il mio numero telefonico, perché era molto dispiaciuta per quello che mi era successo e perché, dovendo cessare l’attività, non avrebbe avuto più modo di rintracciarmi. Voleva farmi gli auguri per il Natale, ma nello stesso tempo aveva paura di farmeli. Pensava che fosse inopportuno. Quando l’ho rassicurata è sembrata molto sollevata. Comprendo benissimo perché le persone hanno paura di parlare con me e non sanno cosa dirmi. Se mi fanno gli auguri hanno il timore di sembrare stupidi; pensano che sia di cattivo gusto e che gli auguri non servano a niente.  Forse non servono a risolvere tutto quello che mi angoscia. Possono, però, farmi sentire che ci sono delle persone che mi amano. Lo interpreto come un loro modo per farmi capire che mi pensano, che vorrebbero sapermi, almeno, tranquilla.

 

20 dicembre 2001

Uscendo ho preso la posta, c’era il notiziario dell’AGEOP che aspettavamo. In copertina un bimbo con un pigiama troppo grande e gli occhi spalancati su un  mondo sconosciuto e la frase di B. Pascal: “Non mi cercheresti se prima non mi avessi già trovato.” Questa frase mi è sembrata subito molto importante e significativa, credo racchiuda il vero significato della sofferenza: non si può soffrire per la mancanza di qualcosa che non hai mai avuto e, a maggior ragione, più quello che avevi era per te importante e più la sofferenza sarà maggiore. Ho aperto il notiziario in autobus, intanto che andavo da Luisa, e ho cercato subito la nostra  lettera. C’era anche la foto di Federica, quella che avevo dato alle ragazze dell’ufficio. Naturalmente mi sono commossa, non posso rileggere quello che ho scritto senza piangere, non perché le parole siano particolarmente commoventi, ma perché mi rivedo in quei giorni e risento tutto il dolore che provavo intanto che scrivevo. La mia mente ritorna subito indietro, se per caso non era già lì.

Credo fosse il 20 ottobre; in quei giorni provavo di rispondere a chi aveva mandato biglietti e telegrammi. Un lavoro infame, che continuavo a rimandare ma non potevo tenere sempre la pila dei telegrammi in bella vista sul tavolo da pranzo e, perciò, mi ero decisa. A qualcuno volevo scrivere un biglietto di ringraziamento e ad altri volevo telefonare personalmente.

Una delle prime telefonate l’avevo riservata all’AGEOP, che ci aveva mandato un biglietto con delle parole molto belle nei riguardi di Federica, che era una loro volontaria, e anche nei nostri confronti, pur non conoscendoci. Ho telefonato per ringraziare e anche per dire della donazione; infatti avevamo fatto sapere, a parenti ed amici, che desideravamo non sprecare tanti fiori, ma raccogliere una somma da devolvere all’associazione che Federica tanto aveva seguito e ai bambini che amava. Naturalmente la telefonata non è stata facile, come non lo è niente in questo periodo. Non conoscevo personalmente le ragazze che lavorano all’associazione, e quindi mi sono dovuta presentare come la mamma di Federica e la commozione mi ha stroncato per l’ennesima volta. Ho spiegato della somma che avevamo raccolto e ho detto che l’avrei portata di persona.

Prima di andare all’AGEOP ho preparato una lettera (non ho mai avuto tanta corrispondenza come in questo periodo), anche questa fonte di sofferenza:

26 ottobre 2001

Grazie per le bellissime parole che avete scritto per Federica e per il bel ricordo che ne avete. Tutti coloro che l’hanno conosciuta non possono fare a meno di piangere per la sua scomparsa.

La nostra disgrazia è tremenda, ma non dimentichiamoci che tutti i giorni simili disgrazie succedono a tante persone in tutto il mondo, spesso anche molto più angoscianti.

Il nostro pensiero va a tutti i genitori dei bambini che Federica ha tanto amato. Genitori di bambini, anche piccolissimi, che devono vedere i loro figli soffrire per un male tremendo e sopportare delle cure molto complesse e pesanti, soffrendo gravi disagi fisici e psicologici. Federica ha sempre considerato questi piccoli pazienti solo come dei bambini e ha cercato di non fare loro perdere il lato fanciullesco spingendoli a giocare, disegnare e a fare tutte quelle attività che possano divertire stimolando la fantasia, lasciando da parte per un attimo la loro malattia.

Il periodo che Federica ha trascorso come volontaria AGEOP è stato molto importante per il suo accrescimento umano e professionale. Infatti le ha fornito anche l’idea per la sua tesi: “I bambini oncologici e i loro problemi dalla diagnosi alla fase terminale”. 

Per ricordare Federica abbiamo scelto di non sprecare inutilmente tanti soldi in fiori, ma di raccogliere una somma da offrire alla vostra associazione.

Se sarà possibile alleviare le sofferenze anche di un solo bambino, sarà per noi una enorme soddisfazione.

Da ogni avvenimento, per quanto brutto, si può trarre una cosa bella.

Dalla morte, forse, può nascere la vita.

 

I genitori di Federica

 

Dopo qualche giorno sono tornata a ritirare delle locandine e una ragazza dell’ufficio mi ha chiesto il permesso di pubblicare la lettera sul notiziario dell’Associazione, assieme alla foto di Federica. Ho dato l’autorizzazione, credendo e sperando che le parole che avevo scritto potessero in qualche modo essere di conforto per qualcuno.

Adesso, che vedo la lettera stampata sul notiziario, mi sembra di essere ritornata indietro, a quei primi giorni, e mi ricordo di altre lettere, come quella che ho scritto per ringraziare Andrea, il ragazzo di Silvia, e i suoi colleghi autisti della linea di autobus che Federica usava prendere, che avevano raccolto una somma da aggiungere al resto della donazione per AGEOP Ricerca.

Mi era sembrato più cortese scriverlo a mano, anche se ho una brutta calligrafia per colpa della tendinite al polso, che mi tormenta da qualche anno. Quando ho finito di scrivere sono rimasta a fissare il foglio, talmente choccata da non avere più fiato.

Era passato solo qualche giorno e io non riconoscevo più neanche la mia scrittura. Ero già diventata un’altra persona e vedere la prova con i miei occhi mi ha sconvolto, come qualcuno che mi sbattesse una porta in faccia. Dire che non mi sentivo più la stessa persona e vedere la prova, vedere a quale profondità era già arrivato il cambiamento, mi ha  turbato e impressionato. La differenza che salta subito agli occhi, anche ad un profano di calligrafia, è l’orientamento delle righe. Prima la mia scrittura era in righe talmente rialzate sulla destra del foglio, da poter tracciare una riga  quasi in diagonale. Adesso, dopo solo 15 giorni, le righe sono quasi dritte, addirittura descrivono quasi una curva che poi tende verso il basso.

Se un così grande ed immediato cambiamento è verificabile nella scrittura, quale enorme cambiamento è possibile verificare nel nostro carattere e nel nostro comportamento?

 

22 dicembre 2001

La casa è fredda. Si è rotta la caldaia. Mancano due giorni a Natale e si rompe la caldaia. Non riesco neanche ad arrabbiarmi, non mi interessa.

Nel pomeriggio siamo andati a casa di Giovanni, per preparare i tortellini insieme a sua mamma. Ci sono anche le sorelle e il papà. Scherziamo intanto che lavoriamo e Giovanni va sempre avanti e indietro dalla cucina alla sua camera. Deve rispondere al telefono o non so cosa debba fare. Mi sembra strano, più serio del solito. Intanto che guido verso casa, non riesco a non pensarci. Poi credo di avere  capito cosa turba Giovanni. Vederci tutti insieme nella sua casa, dove Federica era andata tante volte, gli fa sentire maggiormente la sua mancanza. Come succede anche a me; è nelle occasioni felici che si nota maggiormente la mancanza di Federica. Quando si vive una situazione già vissuta,  soprattutto se te ne ricorda una felice, è un momento più difficile del solito. Sono più facili le situazioni tristi, così hai anche una scusa per essere infelice e ti puoi crogiolare nell’autocompatimento.

 

27 dicembre 2001

In qualche modo ce l’abbiamo fatta a superare il Natale. E’ stata una dura impresa, un giorno molto difficile. Per la nostra famiglia è sempre stato un giorno molto importante, da festeggiare tutti insieme, con tutte le tradizioni. Ho sempre cercato di rendere questo giorno molto simbolico, rivestendolo anche di  altri significati, oltre a quello religioso. Quindi ho dato ancora più importanza al valore della famiglia, trascorrendolo sempre assieme alle persone più care. Ho sempre curato molto anche l’addobbo della casa, con tanti oggetti anche fatti da me e facevo anche tutti i dolci della nostra tradizione, proprio per mantenerla viva e conservare questi simboli, che riescono ad arricchire ulteriormente l’atmosfera natalizia e fanno capire ai bambini l’importanza di certi valori, che non dovrebbero mai sparire.

Anche quest’anno ho addobbato la casa, come al solito, per sforzarmi di mantenere la tradizione per tutti noi, e anche perché gli amici che  vengono a trovarci trovino un’atmosfera almeno serena, se possibile.  Infatti un’amica mi ha confidato che è rimasta piacevolmente sorpresa dal bellissimo albero che avevo fatto. Non se lo aspettava, evidentemente. Però il fatto di trovarlo e di vedere la casa così sistemata le ha fatto molto piacere. Forse l’ha tranquillizzata vedere che la mia forza di volontà non è sparita del tutto, che ci impegniamo per superare questi brutti momenti.

Siccome avevo molta paura del giorno di Natale, ho pensato di sovvertire tutte le nostre abitudini e uscire dall’ambiente familiare, così abbiamo prenotato il pranzo al ristorante, per uscire di casa. Infatti l’ambiente del ristorante, con persone a noi estranee, non ci ricordava momenti felici e, perciò, andava benissimo. Forse il sistema giusto è aggirare certi ostacoli, sovvertendo certe abitudini. Ecco che, con un rito nuovo, mai fatto prima, riesci a fingere di non notare in modo troppo doloroso, la mancanza della persona a cui pensi sempre, anche quando sei in mezzo a una folla di persone. Dopo siamo andati a far visita a degli amici, così siamo riusciti a trascorrere il Natale in modo abbastanza sereno. Adesso, il mio obiettivo, è fare passare, nel modo più indolore possibile,  le giornate che ancora ci separano dalla fine di queste festività.

 

27 dicembre 2001

Oggi ho incontrato un’amica. Mi stava raccontando del suo lavoro e delle sue giornate e si è interrotta bruscamente mentre stava  dicendo:  “ Adesso devo correre a casa per cucinare per i miei ... per tutti ”. Stava per dire “... per i miei figli” ma si è interrotta ed ha cambiato frase perché ha avuto paura di farmi soffrire. Sono diventata una persona con cui misurare le parole, una persona scomoda con cui parlare. Ho un po’ paura di questo... così siamo in due ad avere paura. Ho paura che tutti smettano di parlarmi e mi evitino, per non incorrere in frasi poco felici. In questo modo finirei per essere emarginata. Emarginata dal troppo dolore e dal timore che questo genera nelle persone.

Quello che molti non capiscono è che nominare i propri figli, non mi può fare male. Non c’è niente che mi possa fare sentire peggio di come sto già. E sapere che gli altri sono felici e le loro famiglie sono unite mi fa stare meglio, mi rassicura sul fatto che la vita può proseguire serenamente. Mi piace molto pensare che ci sono delle case in cui tutti sono felici, come era la nostra prima, e che i genitori gioiscono dei loro figli e della loro vicinanza. Mi aiuta a sperare in un futuro di serenità, sapere che la vita prosegue e può essere felice. Non vorrei mai che qualcun altro dovesse provare il dolore che sto provando.

Naturalmente le altre persone non sanno come mi sento e hanno timore di offendermi con qualche riferimento a Federica, per non farmi pensare a lei e procurarmi altro dolore. Non sanno che io ci penso continuamente e che il dolore non può essere superiore a quello che già provo. Anzi, certe volte, parlare di mia figlia mi fa piacere e qualche lacrima può essere salutare, come una valvola per sfogare la pressione quando diventa troppo alta e può fare esplodere la pentola.

Credo che il mio cervello, per cautelarsi e non impazzire, mi faccia agire come se fossi in un film. Io so perfettamente che mia figlia è morta e non tornerà più, però certe volte credo che io lo sappia come una persona esterna: “ Oh, Federica è morta! Che dolore! E’ tremendo! Come faremo a sopportarlo! Mi dovrò rassegnare, non si può fare altrimenti ”  Tutto questo, però, come fossi un’altra persona che guarda da fuori e soffre, sì soffre molto, ma non come soffrirei io se ci pensassi veramente. Ogni tanto lo faccio e do un pugno al muro o al volante e dico un’imprecazione di quelle vere. Oppure dico a voce alta, parlando con non so chi: “ Va bene, fino adesso abbiamo scherzato. Veniamo al sodo: DOV’È LA MIA BAMBINA, PORCA MISERIA? DOVE CAVOLO È MIA FIGLIA? ”

E lì mi rendo pienamente conto che è vero, E’ VERO!! Una sofferenza così per ventiquattro ore al giorno non si può reggere, no, ecco perché certe volte, io credo di dovermi distaccare, anche se non lo faccio volontariamente, ma credo che il mio cervello, mi ami e voglia impedirmi di morire di crepacuore, se il crepacuore esiste ancora e non è morto assieme ai romanzi dell’ottocento. 

  Continua

 

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