Corsia preferenziale nei
processi penali e civili
(brevi osservazioni sul
d.d.l. 1885-C)
dr. Marco Rossetti, Giudice
Tribunale Roma
1. Il p.d.l. in esame mira - ed è intento del tutto
meritorio - ad apprestare maggiore tutela, sia sanzionatoria,
sia risarcitoria, agli eventi lesivi della vita o della salute
derivanti da sinistri stradali.
Per
conseguire tale obiettivo il p.d.l. si muove lungo due
direttrici principali, prevedendo:
- dal punto di vista sostanziale, l’inasprimento delle pene;
- dal punto di vista processuale, una serie di misure volte ad
accelerare i tempi dei giudizi, tanto civili quanto
penali.
In
teoria, ben poco ci sarebbe da obiettare ad un intento così
altamente condivisibile, ed anzi, assolutamente urgente. Dal
punto di vista tecnico, nondimeno, è possibile formulare
qualche breve osservazione al testo dell’articolato.
2. Innanzitutto, un rilievo di ordine generale:
l’inasprimento delle pene è una misura di per sé non
decisiva, se non lo si “calibra” tenendo conto di tutti i
fattori che incidono poi sulla misura della pena concretamente
espiata.
E’
noto infatti che nel nostro ordinamento, a causa del combinarsi
di una serie di norme sostanziali e processuali “premiali”,
l’entità della pena edittale può essere assai distante
dall’entità della pena inflitta, e quest’ultima può essere
lontanissima dalla pena scontata. Si pensi, ad esempio, al
talora perverso combinarsi delle norme che prevedono sconti di
pena per chi patteggia o domanda il rito abbreviato (anche in
appello, e quindi quando l’amministrazione della giustizia ha
già speso tempo, uomini e mezzi per la celebrazione di un grado
di giudizio, onde ben poco vi sarebbe da “premiare”) con
quelle che prevedono l’affidamento in prova ai servizi sociali
là dove la pena inflitta sia inferiore ad una certa (e non
irrilevante ) misura. L’intrecciarsi di queste previsioni, di
fatto, porta in qualche caso ad una sostanziale impunità,
specie allorché i servizi sociali cui il reo dovrebbe essere
affidato o non esistono, ovvero hanno strutture così ridotte da
non potere utilmente garantire alcun serio percorso di
socializzazione e recupero del reo.
Occorre
poi, allo stesso tempo, sfatare quello che a parere di chi
scrive è il “mito” dell’efficacia deterrente della legge
penale, con riferimento ai reati colposi. La maggior parte degli
automobilisti, se pure confusamente sa od intuisce che provocare
la morte o le lesioni di un’altra persona costituisce un
reato, probabilmente non ha alcuna idea circa la misura della
pena che rischia. La stessa psichiatria forense insegna che ben
difficilmente colui il quale è solito violare - poniamo - un
limite di velocità, decida di astenersi da tale condotta sol
perché sia aumentata la pena per il reato di lesioni colpose.
L’aumento
delle sanzioni è quindi una misura che può essere utile ai
fini che qui interessano, ma tenendo ben presente che:
-
la sua funzione sarà soprattutto retributiva, e non preventiva;
- esso deve costituire l’occasione per ripensare al nodo
spinoso dell’effettività
delle pena: è preferibile una pena mite, effettivamente
scontata fino in fondo dopo un celere processo, ad una pena
severissima, che mai sarà effettivamente irrogata o, se
irrogata, mai sarà effettivamente scontata.
3. L’art. 2, comma 1, lett. c, prevede l’aumento
delle sanzioni nel caso di colpa cosciente.
La
fattispecie della colpa cosciente viene descritte nei seguenti
termini: “quando il responsabile risulti avere agito potendo
ritenere prevedibile l'evento”. Sebbene l’intento della
norma sia chiaro, si potrebbe rilevare che, da un punto di vista
strettamente letterale, in qualsiasi ipotesi di colpa il
responsabile poteva prevedere l’evento: se, infatti,
quest’ultimo fosse stato imprevedibile, si dovrebbe parlare di
caso fortuito, e non di colpa.
Inoltre,
occorre chiedersi perché limitare l’inasprimento delle
sanzioni alla colpa cosciente, e non a tutte le ipotesi di colpa
grave. Prevedendo l’inasprimento della pena per le ipotesi di
colpa grave, oltre a superare le inevitabili schermaglie
processuali circa la prevedibilità dell’evento, si lascerebbe
al giudice la possibilità di adattare il più possibile la pena
alla effettiva gravità del fatto.
Quella di “colpa grave”, infatti, è nozione generale
ed astratta, che richiede di essere apprezzata in base a tutte
le circostanze del caso concreto: sicché, quel che può
costituire colpa grave in un caso (ad esempio, omesso rispetto
dell’obbligo di precedenza) può non esserlo in un altro.
Insomma, attesa la infinità varietà delle condotte causative
di sinistri stradali, il riferimento alla colpa grave quale
titolo per l’innalzamento della pena appare preferibile,
rispetto al riferimento alla colpa grave, in quanto maggiormente
“modellabile” in funzione delle concrete modalità del
fatto.
4. L’art. 2, comma 2, del p.d.l. prevede la riduzione
della durata delle indagini preliminari a sei mesi.
Tale
norma, nella sua drasticità, potrebbe forse ingenerare effetti
opposti a quelli divisati. Infatti, con un termine così breve,
fatalmente si presenteranno due rischi opposti: se le indagini
vengono svolte con zelo ed attenzione, c’è il rischio che non
si possano concludere, e che il tutto finisca con una richiesta
di archiviazione; se, per contro, l’organo inquirente si
affretta per rispettare il termine, c’è il rischio opposto
che svolga indagini frettolose od incorra in nullità, anche in
questo caso precludendosi la possibilità di ottenere il rinvio
a giudizio.
La
stessa norma prevede, altresì, il consenso della persona offesa
perché l’imputato possa accedere al giudizio abbreviato od
all’applicazione della pena “patteggiata”.
Chi
scrive non ha dubbi che tale norma costituirebbe una conquista
di civiltà: malauguratamente, però, essa si scontra con un
ormai prolungata linea di evoluzione normativa, volta a mettere
il solo imputato al centro del processo, e farne l’unico dominus
della scelta sull’accesso ai riti alternativi. Si consideri,
al riguardo, che oramai non solo il p.m. non può opporsi alla
richiesta di giudizio abbreviato, ma non è neppure necessario
che venga acquisito il suo parere.
Il
p.d.l. qui in commento potrebbe, quindi, costituire una salutare
inversione di tendenza: ma è sin troppo agevole supporre che,
su questo punto, lo scaltro patrocinatore dell’imputato non
avrebbe alcuna difficoltà a dolersi della illegittimità
costituzionale di una norma, che consente alla parte privata ciò
che è vietato persino alla parte pubblica.
5. Sul piano processuale civile, il p.d.l. vieta le
udienze di mero rinvio e fissa un rigoroso timing
dei tempi del processo (non più di un mese tra un’udienza e
l’altra).
Ebbene,
su tale aspetto pare a chi scrive che la strada del timing processuale imposto per legge non abbia avuto, sinora
successo. Il codice di rito attualmente in vigore già prevede
(con norme efficaci sin dal 1940) che il rinvio istruttorio non
può essere superiore a 15 giorni, e che sono vietate le udienze
di mero rinvio.
Quel
che accade nella prassi, invece, è sotto gli occhi di tutti.
Certo, qui si affronta un problema enorme, alla cui soluzione
deve contribuire un vero e proprio cambio di mentalità dei
protagonisti del servizio giustizia (magistrati ed avvocati), più
che una modifica normativa. Quest’ultima può servire, a mio
parere, ma non nella direzione di fissare una tempistica
rigorosa che giocoforza non può essere rispettata (si pensi, ad
esempio, agli avvisi di cancelleria: nelle grandi città gli
ufficiali giudiziari restituiscono il relativo biglietto anche a
distanza di un mese dalla notifica; fissare udienze a distanze
inferiori vorrebbe dire perdere tempo, posto che l’assenza
dagli atti della prova dell’avvenuta comunicazione di
cancelleria costringerebbe il giudice a rinnovare
l’incombente), ma in altre direzioni: ad esempio, introducendo
l’obbligo di richiedere prove e depositare documenti sin
dall’atto di citazione, eliminando il rinvio inutile di cui
all’art. 180 c.p.c., riducendo il termine a comparire
(attualmente di due mesi), o quello per lo scambio delle
comparse conclusionali (anch’esso di due mesi).
6. In tema di risarcimento del danno, il p.d.l. prevede
la redazione di una tabella
per la liquidazione del danno biologico.
Tale
norma dovrebbe essere coordinata col disposto dell’art. 5 l.
57/2001, la quale ha introdotto una tabella analoga. Si
dovrebbe, ad esempio, prevedere espressamente che, fermi
restando i valori della tabella già in vigore, essi siano
estesi anche alle invalidità superiori al 9%.
Quanto
al danno biologico da morte (punto d), si tratta a mio avviso di
norma non condivisibile, perché porterebbe ad una sostanziale
duplicazione risarcitoria. Già oggi, del resto, nessuno nega
che gli eredi abbiano diritto al risarcimento del danno
biologico subito dal de
cuius, e da questi trasmesso al momento della morte
(l’esempio tipico è quello di chi perda la vita quodam
tempore rispetto al sinistro). Ma il punto è proprio
questo: occorre stabilire che effettivamente la vittima abbia
subito un danno di tipo biologico, cioè abbia avuto la
possibilità di avvertirsi limitato, menomato, vulnerato.
Soprattutto nei casi di morte immediata, ciò - per quanto possa
apparire brutale il dirlo - non avviene, sicché liquidare agli
eredi il danno biologico subito dal de cuius
significa in sostanza liquidare due volte il danno morale.
Può,
invece, essere molto opportuna al riguardo la previsione di una
misura del danno morale, sinora lasciato al libero apprezzamento
del giudice. Anche in questo caso, per evitare censure di
illegittimità costituzionale, è opportuno che la norma fissi
il minimo (o anche il massimo) del quantum, lasciando al giudice la possibilità, ove necessario e con
adeguata motivazione, di modificare il valore indicato dalla
legge al fine di adattarlo alle circostanze del caso
concreto.
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