Consenso delle parti offese per patteggiamento e giudizio
abbreviato
prof. avv. Claudia Cesari, Università di Macerata
Innanzitutto, vi ringrazio molto dell’invito. Voi avete
compiuto un lavoro interessante e meritevole, sollevando un
problema che – come vedremo – è un vespaio, ma che, pure,
è urgente e deve essere affrontato. Di qui la riflessione che
vi propongo, sia pure con la concisione che questo incontro,
purtroppo, ci impone.
Un’associazione
come questa svolge un’opera importante per la collettività
dal punto di vista politico, ed è politica alta, quella che
parte dalle esperienze personali e si preoccupa di tutelare beni
che appartengono non solo ai singoli, ma anche alla collettività.
Offre, dunque, una sollecitazione preziosa, poiché nel momento
in cui si legifera, ci si deve porre nell’ottica della tutela
dell’interesse collettivo per disegnare il piano strategico più
adeguato a garantirla. E’ d’obbligo, allora, un discorso un
po’ “cinico” sulle prospettive di successo della vostra
iniziativa di riforma, come è stato esplicitamente e
saggiamente richiesto da chi ha voluto ed organizzato questo
convegno.
Gli obiettivi
della proposta sono certamente condivisibili. Partiamo da un
dato di fatto innegabile: nel processo penale, in linea di
principio, la persona offesa è marginale. “Destinata”
a costituirsi parte civile, indipendentemente da questa
metamorfosi è stata considerata poco, ed appare divisa tra il
ruolo di discreto spettatore delle strategie dell’inquirente,
e quello mal tollerato di “esattore” del risarcimento del
danno. Nei riti speciali, in particolare, il terreno è fecondo
per questa emarginazione, specialmente nel patteggiamento. Dato
che superare questo stato di cose è l’obiettivo che ci si
deve porre, diviene cruciale la scelta delle strategie,
l’individuazione dei possibili interventi sull’assetto
normativo vigente. Dobbiamo allora guardare a questa proposta
prefigurandoci i problemi che può incontrare durante il
percorso legislativo, soprattutto dal punto di vista delle
scelte tecniche e della loro capacità di dare adeguata
traduzione alle opzioni politiche che ne costituiscono l’intramatura
ideale.
Sgomberiamo il
campo, innanzitutto, da un possibile equivoco: se la giustizia
penale e quella civile sono lente, ci sono lentezze legate non
agli istituti codicistici, ma alla carenza di uomini e mezzi.
Mancano magistrati, si investe poco danaro, esiste un pesante
arretrato; questi sono problemi che non si possono affrontare
attraverso le modifiche al codice. Ed è meglio non farsi
illusioni, perché è possibile innovare le norme e renderle più
razionali, disegnare il processo nella maniera che si crede più
limpida ed efficace, ma le inadeguatezze legate alle
insufficienze strutturali, restano.
La premessa
“realistica” non ci esime, comunque, dal verificare
accuratamente le implicazioni del tema cui è dedicata questa
parte del convegno odierno: il consenso della persona offesa nel
giudizio abbreviato e nel patteggiamento, l’opportunità di
porlo come condizione imprescindibile per la praticabilità dei
due principali riti alternativi del sistema processuale penale.
La prima di
queste implicazioni ed il principale problema da affrontare
riguarda una scelta di fondo della proposta di legge: confinare
le modifiche proposte ai «processi relativi ad imputazione di
omicidio colposo o di lesioni personali colpose comportanti la
totale inabilità della persona offesa» (art.2 lett.a
dell’articolato). E’ vero che si fa riferimento a tali
fattispecie criminose a prescindere dal fatto che si tratti
degli esiti tragici di incidenti stradali ovvero di altre e
diverse evenienze, ma non pare che simile considerazione basti a
dissipare i dubbi. Visto, infatti, che l’esigenza di non
mortificare il ruolo dell’offeso si pone per qualsiasi reato
che abbia una vittima, sarebbe difficilmente compatibile con
l’art. 3 Cost. una disciplina che consentisse alla parte lesa
di incidere in maniera determinante sulla forma del procedimento
solo per una categoria di illeciti penali. La premessa ideale
della riforma sta nel riconoscere l’imprescindibilità del
coinvolgimento della persona offesa nella scelta del rito: se la
si condivide, va estesa necessariamente a tutti i reati che
“producano” una vittima. Forse si dovrebbe, allora,
immaginare di estendere l’operatività della previsione, cioè
di configurare il giudizio abbreviato e il patteggiamento come
riti in cui sempre, quando c’è una vittima, questa abbia voce
in capitolo. Resta da verificare in che modo.
In ordine al
giudizio abbreviato, devo affiancare le mie perplessità a
quelle avanzate da chi mi ha preceduto: l’istituto ha,
attualmente, una struttura di per sé incompatibile con questa
proposta. E’ un assetto per molti versi discutibile, ma
implica che l’imputato possa accedere al giudizio abbreviato
senza che vi sia alcun meccanismo preventivo di negoziazione,
non solo con l’offeso o con i suoi familiari, ma persino con
il pubblico ministero. In un simile quadro, la norma resterebbe
del tutto eccentrica e l’offeso avrebbe, paradossalmente ed
irragionevolmente, più potere di quello che ha il magistrato
inquirente. Il rito abbreviato presenta – va riconosciuto -
non poche incoerenze (tra queste, una riduzione di pena che
consegue comunque alla scelta del procedimento alternativo,
anche se non sempre corrisponde ad un effettivo risparmio di
risorse processuali), ma solo in una complessiva e radicale
rimeditazione dell’istituto, della sua fisionomia, della sua
funzione, si potrebbe inserire anche la rivisitazione del ruolo
che vi gioca la vittima.
Diverso è il caso del patteggiamento, il rito speciale
che – credo – più del giudizio abbreviato mortifica
l’offeso, poiché non solo non consente di ottenere il
risarcimento del danno, ma ostacola il confronto della vittima
con l’imputato, svilisce spesso il rapporto con il giudice a
mero contatto cartolare sui presupposti di ammissibilità del
rito, né, come è noto, produce una decisione spendibile in
sede civile. Per ottenere un minimo di “visibilità”,
l’offeso deve appellarsi a quelle soluzioni giurisprudenziali
che, anche sulla base del diritto ad ottenere il rimborso delle
spese processuali, hanno altresì garantito la facoltà di
interloquire sull’ammissibilità del rito, sull’inesistenza
dei presupposti per il proscioglimento, sulla qualificazione
giuridica del fatto, sulla congruità della pena. La soluzione
che si propone nel disegno di legge è radicale: impedire il
patteggiamento quando la persona offesa non vi consenta. Ma,
formulata in questo modo e malgrado il rigore nitido della
scelta suggerita, la proposta può incontrare serissimi
ostacoli: ci sono rischi, per così dire “teorici”, rischi
di contrasto con il dettato costituzionale, rischi
“politici”.
Le perplessità
teoriche traggono origine dal fatto che, se la persona offesa può
impedire il patteggiamento con un veto incondizionato e
immotivato, la sua volontà diviene determinante perché sia
coltivabile una modalità di esercizio dell’azione penale,
affidata di norma alla scelta del pubblico ministero. E’ una
preoccupazione non insuperabile, posto che il p.m. mantiene la
possibilità di esercitare l’azione nelle forme ordinarie, ma
potrebbe creare ciò non di meno qualche difficoltà.
Inoltre, impedendo il
patteggiamento con un veto “secco”, senza possibilità di
verifica da parte del giudice (almeno stando alla norma così
come formulata nella proposta), la persona offesa impedisce il
correlato sconto di pena, influendo in maniera determinante
sull’entità della sanzione che deve essere applicata nel caso
concreto. Sarebbe davvero arduo reputare questa opzione
normativa coerente con il dettato dell’art.101 co. 2° Cost. («I
giudici sono soggetti soltanto alla legge») e con il principio
di legalità della pena (artt.25 co.2° Cost. e 1 c.p.).
Infine, una
preoccupazione politica: c’è il rischio di trasferire
all’esterno della sede giudiziaria una trattativa sul consenso
nella quale possono risultare cruciali eventuali rapporti
“diseguali” tra l’imputato e la parte lesa. In mancanza di
margini di controllo successivo, l’imputato ricco potrebbe
“comprare” il consenso da una vittima in condizioni
economiche disagiate. Non sarebbe un’obiezione nuova: un
problema di questo tipo si è già presentato nel corso del
dibattito parlamentare sul rito penale davanti al giudice di
pace, la cui disciplina è ispirata, tra l’altro, alla
centralità dell’offeso, in nome di una scelta radicalmente
innovativa per la nostra cultura giuridica. Ma subito si è
rilevato che, là dove la vittima può condizionare l’esito
della decisione, sono possibili sperequazioni, ingiustizie,
disparità di trattamento. E’ prevedibile che la prospettiva
critica appena rammentata si riapra su una proposta ispirata
alla medesima “filosofia”.
Non ci si può
limitare, però, ad enunciare prospettive critiche; si deve
poter fare leva sulla proposta avanzata da questa Associazione
per immaginare possibili scenari di intervento, anche delineando
altri itinerari di riforma. C’è, naturalmente, il percorso
“tranchant”, sul
quale già la proposta è parzialmente avviata: elevare la pena
in maniera tale, che i più gravi reati legati
all’infortunistica stradale, ritenuti troppo seri per
consentire negoziati sulla sanzione, restino fuori dall’area
di operatività del patteggiamento, sia o meno consenziente
l’offeso. E’ una soluzione drastica, ma coerente nel suo
estremo rigore. Porrebbe, tuttavia, un problema: si dovrebbe
alzare la pena al punto tale, che verrebbe meno il legame di
proporzionalità tra la condotta illecita e la risposta
dell’ordinamento, specie alla luce del confronto tra questi
reati e gli altri che portano al medesimo risultato
sanzionatorio.
C’è un
percorso, invece, più composito, magari frammentario, ma forse
più agibile.
Pare,
anzitutto, possibile inserire nella disciplina del
“patteggiamento” l’audizione obbligatoria della persona
offesa - non necessariamente costituita parte civile ed a
prescindere dal fatto che ci si trovi in udienza preliminare –
prima di decidere sull’ammissibilità del rito. A fronte della
richiesta delle parti volta a chiedere l’applicazione della
pena, la vittima andrebbe sempre avvisata e, se presente in
udienza, sentita, con l’assistenza tecnica di un difensore;
fisiologicamente, ad azione penale esercitata, sarebbe chiamata
ad esprimere la sua opinione, anche in ordine alla congruità
della pena, punto su cui il suo contributo è di enorme
importanza, trattandosi del soggetto che ha cognizione diretta
della gravità del fatto. Avrebbe, in tal modo, con la titolarità
del diritto ad esprimere un parere, pur non vincolante,
sull’ammissibilità del rito, un’occasione ineludibile di
confronto immediato ed orale con il giudice.
Altra via
praticabile, della quale si può già ravvisare una traccia nel
codice, è legata al delicato problema dell’efficacia
extrapenale della sentenza che applica la pena richiesta dalle
parti. Attualmente la decisione non è spendibile nei giudizi
civili di danno, in ragione della impostazione tradizionale,
consolidata sino ad ora, fondata sul fatto che il patteggiamento
non implica alcun accertamento della responsabilità. Tuttavia,
dopo la legge 27 marzo 2001, n.97, gli artt.445 comma 1 e 653
c.p.p. consentono alla pubblica amministrazione di avvalersi
anche della sentenza di patteggiamento nei procedimenti
disciplinari. Ed appare già discutibile sul piano dell’art.3
Cost. che la P.A. possa giovarsi delle sentenze di
patteggiamento nei giudizi per responsabilità disciplinare,
mentre la statuizione di condanna non ha alcun rilievo in favore
del cittadino vittima di un reato, pur se gravissimo: a
quest’ultimo si impone, per avere tutela, di attivarsi in sede
civile e di sobbarcarsi agli oneri e alle attese di un ulteriore
giudizio. Del resto, se la sentenza di patteggiamento può
statuire efficacemente anche in sede diversa da quella penale in
ordine alla sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale,
all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, ciò
dovrebbe valere in ogni sede, inclusi i giudizi civili di danno.
Si potrebbe, dunque, intervenire su questo particolare versante,
ampliando l’area di operatività dell’art.653 comma 2 c.p.p..
Un altro
aspetto che può essere modificato è quello che riguarda
l’applicazione della pena richiesta dalle parti al termine del
dibattimento di primo grado (art.448 comma 1 c.p.p.). Anche in
tal caso, la sentenza che applica la pena ridotta, ritenendo
congrua la richiesta presentata a suo tempo dall’imputato, non
statuisce sulla responsabilità civile, a differenza di quanto
stabilito per la decisione che interviene in seconda istanza
(art.448 comma 1 c.p.p.). Se è vero che, giunta in appello, la
parte civile ha già ottenuto ragione in primo grado e non se ne
vuole perciò compromettere l’attività processuale già
vittoriosamente svolta, è innegabile che siano affini e
parimenti meritevoli di tutela i suoi interessi, quando ad
applicare “tardivamente” la pena richiesta sia il giudice di
prime cure a dibattimento chiuso. In questa evenienza, si è pur
svolto un accertamento pieno, nel contraddittorio tra le parti,
sulla base di prove dibattimentali che ben consentono di
statuire sulla responsabilità e sulle conseguenze civili del
reato; l’attività processuale che viene vanificata è lunga,
cospicua e viene accollata ingiustificatamente al danneggiato,
che vede semplicemente ignorate le proprie istanze. Si potrebbe
affermare che, concluso il giudizio di primo grado, il giudice
ha sì gli elementi per applicare la pena richiesta reputandola
congrua, ma anche per statuire sulla responsabilità civile.
Un altro
aspetto su cui si potrebbe intervenire è quello della
sospensione condizionale, su cui neppure il giudice sembra, allo
stato, poter incidere più di tanto. Essendo oggetto
dell’accordo tra imputato e pubblico ministero è, come gli
altri termini del negozio intercorso tra le parti, intangibile
per il giudicante; né questi può subordinarne la concessione
al risarcimento o alla riparazione, perché nel patteggiamento
non c’è accertamento della responsabilità né statuizione
sul quantum da risarcire. Anche su questo forse si potrebbe intervenire,
ad esempio, consentendo al giudice di non concedere la
sospensione se il reo (che non l’abbia già fatto prima della
richiesta) non provveda alla riparazione entro un termine che il
giudicante stesso stabilisce, riservando alla decisione finale
sull’ammissibilità del rito anche il vaglio sull’effettiva
adeguatezza del ristoro eventualmente avvenuto.
In prospettiva
va, da ultimo, avviata una riflessione più difficile, che
schiude la prospettiva di un terzo percorso di riforma: quello
che conduce alla mediazione. Mi rendo conto che sono temi sui
quali si può avviare un confronto solo embrionale, vistane la
complessità, ma sono oramai ineludibili. Ripensare il ruolo
della vittima nel processo, infatti, è imposto a livello
sovranazionale dalla decisione quadro del Consiglio
dell’Unione Europea 15 marzo 2001 n.2001/220/GAI, relativa al
riavvicinamento delle legislazioni nazionali in ordine alla
posizione della vittima nel rito penale. Siamo chiamati dunque a
riflettere su queste tematiche, se non altro perché abbiamo già
sufficienti problemi di credibilità internazionale per quanto
riguarda l’uniformità della legislazione interna agli standard europei. Tra le altre cose, la decisione prevede la
garanzia per la vittima di «essere sentita durante il
procedimento e di fornire elementi di prova» (art.3), il che
vuol dire che non si possono avere decisioni che prescindano dal
ruolo della persona offesa, che deve essere sentita prima di
decidere e messa in condizione di fornire elementi di prova. Non
solo la previsione conforta una delle scelte strategiche cui
poco fa si è fatto cenno, ma si armonizza con alcune opzioni più
recenti in materia di rito penale, quali, ad esempio, la
disciplina delle investigazioni difensive, a norma della quale
anche il difensore della persona offesa può svolgere indagini
parallele, destinate all’apposito fascicolo ed utilizzabili
per le decisioni che concludono il procedimento e siano fondate
sugli atti di indagine. Ma c’è un’altra indicazione di
rilievo, nella decisione quadro: «ciascuno Stato membro
provvede a promuovere la mediazione nell’ambito dei
procedimenti penali per i reati che esso ritiene idonei a questo
tipo di misura» (art.10). La mediazione è istituto
completamente nuovo, che comporta il confronto diretto tra il
reo e la parte lesa. Il reo deve affrontarla, ma non innanzi ad
un giudice: anzi, lo Stato deve organizzarsi e istituire uffici
preposti a gestire la mediazione, sedi in cui mediatori
professionalmente qualificati si adoperano per risolvere il
conflitto tra le persone provocato dall’illecito, per ricomporre la lacerazione che il reato ha prodotto. La
mediazione può non avere successo, ma, se lo ottiene, i suoi
esiti devono essere considerati dal giudice penale . Una
soluzione pensabile è che la mediazione consenta di avere
benefici premiali anche ulteriori e diversi da quelli già
contemplati dall’ordinamento. L’imputato che accettasse il
confronto diretto con la parte lesa ed eventualmente il tipo di
riparazione che questa reputi adeguata, potrebbe giovarsi dei
frutti della mediazione, chiedendo al giudice di prenderli in
considerazione; ove questi ne confermasse gli esiti positivi,
verificando la correttezza del procedimento e l’adeguatezza
della riparazione, potrebbe “premiare” l’imputato nella
forma di un ulteriore sconto di pena.
Mi rendo conto
che queste sono ipotesi ancora vaghe, veri e propri
“futuribili” del sistema. Ma hanno la sola pretesa di essere
spunti di riflessione. Si cerca esclusivamente di immaginare e
di costruire un sistema in cui sia possibile dare voce alle
vittime, assicurare loro dignità come soggetti processuali,
garantire ascolto alle istanze e soddisfazione alle legittime
pretese. Si tenta di fare in modo che questo possa essere un
risultato positivo per la collettività, giacché la risposta
alla domanda di giustizia è un bene di tutti, segno di stabilità
dell’ordinamento e di coesione della società.
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